Mimì Bertè: così Carlo Alberto Rossi accese il sogno di donna soul

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L’avventura musicale di Domenica Bertè inizia molto presto. Ha solo sei anni quando viene scelta fra le alunne della scuola elementare di Porto Recanati per cantare in diretta nazionale una Ninna nanna al bambino Gesù. Ma, quando la radio diffonde la sua voce, nessuno dei familiari la riconosce: forse a causa della distorsione creata dall’altoparlante sulla voce della bambina. Così, al suo ritorno a casa, tutto l’entusiasmo viene spento da un’accoglienza non diversa dal solito, ma conclusa con una frase di questo genere: «Oggi abbiamo sentito alla radio una bambina che cantava con voce meravigliosa. Tu dici sempre che vuoi fare la cantante, ma quella è veramente una bambina che può cantare!». Dunque l’esordio artistico di Domenica Bertè si lega indissolubilmente a questo cocente dolore di non essere stata riconosciuta.

Seconda di quattro sorelle, Mimì Bertè nasce a Bagnara Calabra il venti settembre 1947, esattamente lo stesso giorno e lo stesso mese (ma tre anni prima) di sua sorella Loredana. Questa curiosa coincidenza costituisce solo il primo segno di un destino che si diverte a incrociare spesso, e non solo dal punto di vista professionale, le vite delle due sorelle. Due donne dai caratteri molto diversi, ma accomunate da una grande passione per la musica. Una dimensione che, per entrambe, diventerà una ragione di vita.

A soli cinque anni, Mimì Berté è già considerata una leader nei cori organizzati dalle sue maestre d’asilo. Per il giorno della prima comunione, il padre l’avvia ufficialmente al bel canto, iscrivendola in un coro di professionisti. Da allora, passa diversi anni a cantare da una chiesa all’altra. Battesimi, comunioni e cresime si susseguono a ritmo serrato, mentre parecchi matrimoni vengono celebrati con il sottofondo delle sue meravigliose Ave Maria di Schubert e di Gounod.

Anche in casa, ogni ambiente si rivela adatto per improvvisare uno spettacolo. D’inverno, la piccola cantante sale abitualmente sulle sedie della cucina per intonare le canzoni che ha ascoltato alla radio. D’estate, il palcoscenico è rappresentato da un enorme giardino, con il cane Clito come unico spettatore. In fatto di repertorio, la bambina ha già delle predilezioni. Nilla Pizzi, che spopola alla radio, diventa uno dei suoi idoli. Poi viene conquistata da una canzone, Bandiera rossa, che per la famiglia si trasforma in una vera ossessione. Mimì la canta in continuazione e questo a papà Bertè non piace, per il timore che il paese possa pensare che sia lui a insegnare alla figlia quella tendenziosa marcetta. Intanto il professore Giuseppe Bertè, docente di greco e latino nei licei, non vede nel futuro di sua figlia la carriera della musicista e, per lei, spera in una laurea, magari in medicina. Ma si tratta di un progetto irrealizzabile, nonostante la spiccata propensione di sua figlia per lo studio e la ricerca. Così, inizia a prendere regolari lezioni di pianoforte, mentre nel canto viene indirizzata alla lirica come mezzo soprano.

Musica leggera e musica lirica si confondono nel suo immaginario di bambina come in un complesso caleidoscopio. Solo il tempo metterà ordine nelle sue idee musicali. Infatti, ormai adolescente, si dedica a tempo pieno alle tecniche della musica leggera.

Nel 1958, già padrona di un repertorio di oltre sessanta canzoni, si esibisce nei dintorni di Ancona con una delle tante orchestrine che fanno il giro delle balere. Il gruppo di strumentisti che l’accompagna si chiama La Mela: è un complesso in cui suonano anche un macellaio e un impiegato di banca. Tutti in divisa, con i bordi blu. Nel 1960, a tredici anni, si iscrive a un concorso per voci nuove: il Festival del dilettante. Supera, come in un gioco, tutte le fasi eliminatorie. Arriva in finale: è ormai certa della vittoria, ma ha una brutta sorpresa quando viene decretata seconda. La delusione è enorme e l’organizzatore si riterrà in dovere di spiegarle che la vincitrice era stata appoggiata da persone molto influenti. «Dissi a mia madre: Basta, in questa città non voglio fare più nulla!».

Il grande sogno è quello di raggiungere Milano, la capitale della discografia italiana, dove migliaia di giovani talenti sognano una nuova possibilità di vita, alla ricerca, quasi disperata, di una scrittura.

Con disarmante ingenuità, Mimì pensa che per diventare una cantante professionista sia sufficiente recarsi a Milano, presentarsi a una casa discografica e firmare un contratto. Sua madre la pensa diversamente e, a ragion veduta, non si stanca di darle buoni consigli. Ma lei non cede. Dopo quattro giorni che è chiusa in camera a digiunare, la mamma decide di accontentarla.

Scesa dal treno, prende la guida del telefono e inizia a chiamare tutte le case discografiche segnate, ricendo risposte alquanto deludenti. Il mattino seguente, senza convinzione, si avvicina al telefono e compone l’ultimo numero segnato sull’agenda. Assonnato, le risponde il musicista Carlo Alberto Rossi, fondatore dell’etichetta discografica Car Juke Box. «Mi disse se ero matta a tirarlo giù dal letto alle sette del mattino. Io gli raccontai quello che era accaduto il giorno prima e come poche ore fossero bastate a spezzare le mie speranze. Così, lo implorai di farmi un provino». Rossi le fissa un’audizione per la stessa mattinata. «Vediamo cosa sai fare», le dice, vedendola arrivare assieme alla madre. Mette tutta l’anima nel cantare quella sua canzone, tanto che il maestro rimane così positivamente impressionato da voler sentire tutto il suo repertorio.

Carlo Alberto Rossi la scrittura subito come cantante di punta di un locale riminese, il Whisky Juke Box. Un periodo fondamentale per sottoporla alla prova del contatto quotidiano col pubblico: un uditorio più esigente e desideroso di ascoltare repertori che spaziano dal rock al melodico, dal jazz al blues.

Le esperienze riminesi si rivelano esaltanti e, nell’autunno del ’63, la rendono finalmente matura per entrare in sala d’incisione. Da Ancona si trasferisce stabilmente a Milano, ospite della madre di Carlo Alberto Rossi, la signora Fernanda. Da allora, quella casa e l’annesso studio di registrazione diventano le uniche mete delle sue giornate milanesi. Di lei Carlo Alberto Rossi ricorda la perseveranza con cui restava in sala per ore, provando nuovi pezzi e sviluppando le sue idee musicali. Cantava e ricantava, registrava e cancellava, lasciandosi guidare dai suggerimenti del maestro, che finalmente decide di farla esordire su vinile.

Le prime incisioni vengono ospitate su due 45 giri confezionati con copertine identiche. Il primo disco comprende le canzoni Lontani dal resto del mondo e I miei baci non puoi scordare, adattamenti di I want to stay here (un brano di Jerry Goffin e Carole King già portato al successo da Steve Lawrence ed Eydie Gorme) e You can never stop me loving you, tratta dal repertorio di Johnny Tillotson.

La promozione viene affidata ad alcuni rotocalchi dell’epoca. Il primo ad accorgersi di lei è il settimanale «Bolero Film», che a novembre segnala l’uscita del suo primo disco, definendola «un’esordiente destinata a esplodere entro l’anno».

Il secondo singolo, uscito poche settimane dopo, comprende un brano tipicamente adolescenziale, Insieme (televisione con mamma e papà), acoppiato a Let me tell you. Ancora una volta, i brani sono tratti dal repertorio estero. Insieme è la traduzione di un brano portato al successo da Billy Fury, In Summer, mentre Let me tell you rappresenta la sua prima incisione in lingua originale: una prova particolarmente impegnativa per un’interprete di appena sedici anni. Tutto questo le fa meritare la prima recensione da parte di «Tv Sorrisi e Canzoni», che vede nelle sue interpretazioni «uno stile incisivo e graffiante, da futura leonessa».

Nell’estate del ’63, Rossi la presenta ai festival di maggiore richiamo, dove lei avrà modo di farsi apprezzare soprattutto dalla critica. Le occasioni più rilevanti di questo periodo risultano il Torneo della canzone di Pesaro e il Cantastampa di Rimini, dove lei presenterà una canzone mai incisa su disco, dal titolo You are my boy. «Mi piombò in casa il Maestro Carlo Alberto Rossi per chiedermi se me la sentivo di cantare l’indomani sera al festival di Pesaro. Accettai con molto entusiasmo, ma subito dopo fui presa dal panico. Di questo patema feci partecipi alcuni miei coetanei, i quali l’indomani vennero in blocco a Pesaro per assistere al mio “franamento”. Ma io ero già tranquillissima. Loro non mi nascosero che ne dubitavano: “Se tu stasera sei disinvolta e non stecchi per la fifa, piove”. Era Luglio, il tempo bellissimo. Be’, andò tutto ottimamente a giudicare dalle accoglienze del pubblico, del maestro Rossi e dei giornalisti. Alla fine dello spettacolo, ritrovatami in mezzo ai miei amici che stavano per ritornare ad Ancona, non potei fare a meno di dir loro: “Avete visto che non è piovuto?”. E poi, alzando per istinto lo sguardo al cielo, che era stellatissimo, mi venne istintivo di aggiungere “No, stasera, semmai, in cielo c’è una stellina in più. Piccola, piccola, magari, ma tutta mia”».

La piena affermazione coincide con l’incisione del suo terzo singolo. Il brano di punta è Il magone, un lento twist firmato da Gianni Guarnieri del Quartetto Radar. L’ufficio stampa la definisce «una canzone giovane per i giovani e per tutti coloro che, stupiti, intendono interpretare e capire le cose più vere che nasconde il moderno linguaggio dei giovani d’oggi». Proprio grazie al Magone, nel maggio del ’64, si aggiudica il Festival di Bellaria, rassegna che due anni prima aveva lanciato Gianni Morandi. È una vittoria importante, che le permette di ampliare la notorietà a livello nazionale. Pochi giorni dopo, infatti, la rubrica della Rai Tv7 trasmette la sua prima intervista, mentre Rossi decide di spingere al massimo l’acceleratore della promozione.

Dopo una serie di servizi realizzati per i giornali, tra cui spicca quello pubblicato dal settimanale «Tuttamusica», in cui lei posa per un servizio di moda assieme al cantante Don Backy, la Berté sostiene il provino Rai per la rivista e lo spettacolo. L’esito dell’esame è positivo e la commissione la ritiene idonea alla radio e alla televisione, scritturandola nel cast dei cantanti «dallo stile moderno, tipo urlatori, alla Celentano».

Dopo alcuni giorni, viene invitata a registrare la prima puntata del varietà autunnale Teatro 10, condotto da Lelio Luttazzi, dove lei lancia il nuovo singolo, Ed ora che abbiamo litigato, accoppiato sul vinile alla celebre Chain Gang di Sam Cooke. Proprio questa risulta una delle sue realizzazioni migliori, soprattutto nella resa vocale degli incisi.

La partecipazione a Teatro 10 accresce la sua popolarità, anche grazie alla promozione effettuata da riviste specializzate, come il «Radiocorriere Tv», che in un servizio pubblicato il 26 luglio 1964 la ritrae al fianco dei protagonisti della prima puntata. Per l’autunno, viene programmato un nuovo 45 giri, che tuttavia non verrà mai realizzato. Per l’occasione, Gina Binacchi e Gianni Guarnieri scrivono, rispettivamente, il testo e la musica di Solai, un brano molto suggestivo, che ricorda le atmosfere crepuscolari della migliore canzone d’autore. Il lancio avviene a Venezia, durante i tre giorni della Ribalta per Sanremo, una rassegna di voci nuove paragonabile all’odierna Sanremo giovani. A partire da questo momento, però, inizia un periodo abbastanza critico per lei. La sua giovane età non le permette di aggiudicarsi le canzoni più belle, che gli autori preferiscono assegnare a cantanti già affermati. Solai, ad esempio, viene incisa da Johnny Dorelli ed Emilio Pericoli, mentre Carlo Alberto Rossi preferisce assegnare a Mina la bellissima E se domani, che diviene uno dei suoi cavalli di battaglia. La stessa Mimì, di fronte all’evidenza dei fatti, dovrà rassegnarsi e, molti anni dopo, definirà addirittura «una fortuna» il fatto di non aver mai inciso una canzone alla quale lei, ancora giovanissima, non avrebbe potuto dare credibilità. Un sabato sera, nel marzo del ’95, meno di due mesi prima che lei morisse, Carlo Alberto Rossi si scioglierà di emozione vedendola, ormai donna, cantare E se domani nel programma televisivo Papaveri e papere. Ancora oggi il maestro lo considera l’ultimo saluto inconsapevole di Domenica al primo uomo che aveva creduto nelle sue possibilità.

Pubblicato da Menico Caroli